Alzi la mano chi, mentre la maestra spiegava le equazioni o le potenze, non si immaginava su un immenso prato verde, o non sognava una tifoseria urlare il proprio nome, o di essere un giorno nel posto giusto al momento giusto pronto a segnare il goal vittoria.
Chi di noi non ha desiderato almeno una volta di diventare professionista?
Da questo punto di vista Stefan Schwoch è stato sicuramente uno di noi, uno di quelli che sognava queste imprese, ma soprattutto uno che nel corso degli anni è riuscito a trasformare una speranza in realtà.
Ha incarnato l’archetipo del classico eroe di provincia, uno di quelli che corre tanto e non si stanca mai, quello che dà tutto per la maglia che indossa indipendentemente dallo scudetto cucito sul petto, quel giocatore che per spirito di sacrificio tutti vorremmo nella nostra squadra del cuore. La leggenda di Stefan sboccia alla fine degli anni novanta quando l’altoatesino sbarca a Napoli dopo mezza stagione deludente passata nella massima serie con il Venezia.
Ma se in Serie A non era stato facile anche a Napoli il compito non si prospettava dei più semplici: prendersi un posto nel cuore dei tifosi azzurri non sembrava un’impresa adatta ad un vecchietto dal nome impronunciabile.
Stefan arrivò in terra campana a gennaio, ma a fine campionato molti non sapevano ancora pronunciare il suo nome.
Arrivò in una squadra in difficoltà, alla ricerca di un’identità, che viveva con lo spettro della Serie C ogni maledetta domenica. Giunse in un posto dove la gente aveva bisogno di eroi, persone in cui credere e affidare le domeniche, calciatori su cui contare per ricominciare a sognare.
E quel trentenne con soli sei mesi e due gol in Serie A non sembrava essere la persona giusta.
Invece l’anno in cui Stefan Schwoch arrivò al San Paolo fu quello in cui probabilmente molti ragazzi napoletani impararono a credere di nuovo negli eroi, e che soprattutto non esistono eroi di Serie B.
Stefan correva e faceva gol, e più correva e più segnava. I supporters azzurri riconobbero in Schwoch un guerriero mai domo: era sempre l’ultimo ad alzare bandiera bianca, l’ultimo a smettere di correre, quello che finiva ogni partita con la maglia sudata.
Il piglio del lottatore lo rendeva diverso: inarrestabile nelle sue avanzate, sguardo sicuro sotto la folta chioma, implacabile sotto porta.
In uno dei peggiori periodi della storia del club ha contributo alla promozione in Serie A degli azzurri.
A Napoli Stefan ha lasciato il cuore, pur essendo altoatesino e pertanto nell’immaginario collettivo portatore di una cultura agli antipodi rispetto a quella partenopea.
“Ogni volta che Schwoch prendeva palla io speravo che stesse lì lì per inventarsi qualcosa, inventarsi la vittoria; speravo che la palla andasse sempre a lui, immaginavo la partita ma in realtà speravo in lui. In Stefan Schwoch sperava anche la voce di un giovane Auriemma, che diventava più decisa quando diceva: “Sansone Schwoch”, e quando lo diceva io mi sentivo una certezza dentro, come se ci stesse mio padre in mezzo al campo. Ecco, arriva un momento in cui il tuo eroe diventa definitivamente tale. È quando capisci che gli eroi sono i tuoi secondi padri. Per me Schwoch, per tanti motivi, non ultimo il fatto che davvero io vivevo solo ed esclusivamente di calcio, ogni domenica era il mio unico padre”. (Paolo Piccirillo, scrittore)
Non esistono emozioni migliori o peggiori, che salgono o retrocedono di categoria. E non esistono eroi di serie B. Purtroppo però anche le storie più belle sono destinate a finire: un racconto a lieto fine avrebbe narrato Schwoch per sempre al Napoli, in serie A, in Champions League, magari con la fascia di capitano accanto ad altri campioni.
Invece 22 reti di un vecchietto non bastarono a convincere Zeman, che non puntò su di lui per il rilancio azzurro in Serie A. Ma si sa, anche nelle migliori storie gli eroi se ne vanno. Perché, sempre come scritto da Piccirillo, se a un certo punto del cammino non ti lasciano andare avanti da solo, forse non sono veri eroi.
“L’anno di Napoli fu il più esaltante della mia carriera. Fu una stagione bellissima, diedi il massimo e l’affetto del pubblico fu straordinario. Non so se Zeman non mi volle ma so solo che il giorno prima mi dissero che non mi avrebbero mai venduto mentre quello dopo ero del Torino. Fu una cosa bruttissima, ci rimasi malissimo, non dimenticherò mai quel giorno”
Perché come non esistono eroi di serie B, così nemmeno le emozioni hanno una categoria.
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